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Nuove Indicazioni Nazionali: alla ricerca di un senso che non c’è

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Indicazioni Nazionali 2025

Nuove Indicazioni Nazionali: alla ricerca di un senso che non c’è

Le riflessioni di Asfodelo in un testo di riflessione a più mani.

Le Nuove Indicazioni Nazionali per il Primo Ciclo, pubblicate a fine marzo 2025, sottoposte alle opinioni delle Scuole che ne hanno dovuto discutere entro metà aprile, riconfermate dopo un veloce maquillage a metà giugno, diventeranno operative dal Settembre 2026. Tanta fretta per giungere alla pubblicazione di un testo in cui ci si deve sforzare per scorgere un senso che non c’è.

Come evidenziato da più associazioni di settore, non si comprende né l’esigenza di rinnovare le precedenti (2012, 2018), né la tempistica di un processo di rivisitazione che delle Indicazioni Nazionali del 2012 mantiene solo un vaghissimo riecheggiamento.

Ora, che le Indicazioni vadano periodicamente riviste, se i cambiamenti sociali lo richiedono, è un punto fermo, ma non si comprendono né le modalità con cui ciò è avvenuto, né i punti concettuali messi in discussione.

Proprio per questo, l’associazione Asfodelo, a pochi giorni dall’incontro di discussione in programma per il 20 giugno a Tricase (Le), pubblica una propria riflessione, scritta a più mani, con lo scopo di stimolare dal basso la nascita di un dibattito che nella Scuola reale non sembra aver avuto luogo, ed è per questo che propone un proprio Sondaggio[1] rivolto ai docenti del Primo Ciclo, per conoscerne sensibilità ed impressioni.

Leggendo il nuovo testo, si prova indignazione per il compromesso al ribasso che ne viene fuori: semplificazione del processo di costruzione di competenze, per fare di più; elenchi di contenuti mascherati da obiettivi di apprendimento che sacrificano e spesso rimuovono lo sviluppo di abilità e competenze fondamentali. Tutto a danno di una didattica attiva, metacognitiva, costruttiva, l’unica in grado di forgiare pensiero critico.

L’estrema semplificazione nella stesura di questo testo continua a lasciare perplessi, basiti, esterrefatti di fronte alle tante banalità, in bilico tra il ridicolo e il comico. Una fra tutte: senza conoscenza non c’è competenza. Ma chi ha mai detto il contrario? Fin qui si è lavorato sull’aria fritta, sul nulla?! O è un modo per dirci che bisogna tornare al più bieco nozionismo, quello della “testa ben piena”, nonostante a parole lo si neghi? D’altra parte, è sempre pericoloso creare “teste ben fatte”.

Entriamo nel merito del testo pubblicato a partire dalla Scuola dell’Infanzia, lì dove inizia a battere il cuore del concetto di Primo Ciclo, dove i più piccoli muovono i primi passi verso il sapere, la curiosità e la voglia di capire.

Al di là di alcune, per non dire tante, imprecisioni linguistiche, nella prima parte si parla di cambiamenti sociali, di forme diverse di famiglie, di conseguenza verrebbe da aspettarsi che si pensasse anche a “nuovi” bisogni dei bambini, e invece no: i bisogni dei bambini restano uguali. A dispetto di un ovvio ragionamento: se cambia la società, cambiano anche i bisogni.

Definire la finalità principale della scuola l’acquisizione di conoscenze e abilità per sviluppare competenze culturali nella prospettiva dello sviluppo di “talenti” fa riflettere su una visione che emerge dal documento: valorizzare le eccellenze.

E per tutti gli altri? L’art. 3 della Costituzione (peraltro citato nelle Nuove Indicazioni) non parla certo di talenti, ma di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale..» per promuovere l’inclusione di TUTTI. E allora: è o no una contraddizione? Oppure è una voluta esaltazione delle differenze?

Si parla di curricolo verticale, ma manca un riferimento articolato alla continuità con i servizi educativi 0/3, come previsto dalle Linee pedagogiche del Sistema integrato zerosei. Per quanto riguarda i campi di esperienza, che per fortuna sono rimasti quelli indicati dalle Indicazioni 2012, sembrano alquanto superflui i relativi suggerimenti metodologici che si allontanano anche dalle stesse Indicazioni, ed appaiono inoltre privi di fondamento pedagogico, minando la stessa libertà di insegnamento e mettendo peraltro in evidenza contraddizioni e limiti di tali proposte.

Leggendo il “nuovo” documento sarebbe piaciuto trovare un focus sulla qualità e non sulla quantità delle proposte didattiche, sulla cura educativa e sull’osservazione dei bambini, sull’importanza della documentazione anche per la Scuola dell’Infanzia, intesa come una documentazione che valorizzi i linguaggi usati dai bambini, per dare senso e forma ai loro percorsi, e per permettere ai docenti di progettare in itinere, a partire da ciò che emerge, oltre che rendere partecipi le famiglie.

Nelle Nuove Indicazioni per la Scuola dell’Infanzia si parla di “promozione del gioco” al fine di attivare nei bambini processi di manipolazione della realtà.

Ma non dovrebbe essere necessario che il docente promuova il gioco, dal momento che questo è il modus vivendi “naturale” del bambino, come ci insegna Winnicot, perché attraverso il processo immaginativo il bambino trasforma la realtà, attivando numerosi processi. È indispensabile dunque conservare la centralità del bambino nelle pratiche educative e ribadire l’importanza della predisposizione di spazi e tempi adeguati, oltre all’utilizzo di strategie e competenze da parte del docente per progettare in situazione esperienze che conducano a nuovi traguardi di apprendimento. Il docente non deve “guidare”, come spesso viene ribadito nel testo, ma deve saper osservare, cogliere il processo immaginativo e le conoscenze espresse dal bambino per promuovere l’apprendimento, sia pure, come è ovvio che sia, all’interno di piste di lavoro di cui conserva la regia (ma qui si dovrebbe aprire un capitolo a parte riguardo proprio alla formazione dei docenti!).

Prima di procedere ad alcune considerazioni dal taglio più squisitamente disciplinare, restiamo sulla premessa delle Nuove Indicazioni da cui sono sparite alcune parole come “fantasia” e “piacere”, assolutamente irrinunciabili nel processo di apprendimento, in tutte le fasce d’età e per qualsiasi disciplina.

L’unico riferimento presente nelle Nuove Indicazioni è quello di fantasia associata al testo fantasy (Secondaria di Primo Grado, disciplina Italiano), e la fantasia che serve in qualunque processo creativo, che fine fa? Per risolvere un problema in ambito matematico o tecnologico, per sbloccare la chiave di lettura o di interpretazione di un testo, per sperimentare nuove possibilità in ambito artistico, che fine fa questa fantasia? E qui basterebbe citare Rodari con la sua “Grammatica della Fantasia”, Loris Malaguzzi o Vygotskij, per supportare su un piano teorico quella che immediatamente si percepisce come una perdita di ricchezza, rispetto alla prospettiva metodologica fornita dalle Indicazioni 2012, foriere di una visione decisamente più ampia e più stimolante.

Lo stesso accade per il “piacere” di scoprire cose nuove, il “piacere” di leggere, il “piacere” di discutere, il “piacere” di scrivere? Non c’è traccia di tutto questo, salvo in un paio di passaggi legati al piacere dell’ascolto e del movimento, correlati alle discipline di Musica e Scienze Motorie.

Il nuovo testo propone l’insegnamento della Storia ridotto alla narrazione dell’identità dell’Occidente, con un approccio prevalentemente cronologico-lineare e mai comparativo. Si parla esplicitamente di abbandonare la nozione di storia “globale” per tornare a un racconto di storia più “unitario” e radicato nella tradizione culturale europea. È evidentemente un ritorno ad una visione etnocentrica, in contrasto con una Storia globale, multi-prospettica che non valorizza le diversità culturali e non promuove un’analisi critica del potere e del colonialismo.

Questa impostazione rischia di escludere voci e narrazioni di altre culture (islamica, africana, asiatica, latino-americana) e non prepara adeguatamente le bambine e i bambini, e poi le studentesse e gli studenti a comprendere il mondo interconnesso in cui viviamo. Così ci troveremo davanti allo studio della Storia ridotto a raccontino nella Primaria, perché pare sia impossibile lavorare sulle fonti con dei bambini, forse per chi in aula non è mai entrato, viene da pensare, forse per chi non sa cosa voglia dire avvicinare i bambini di 3, 4, 5 classe della Primaria al senso del divenire storico e della ricerca con fonti via via più complesse. Nella Secondaria tale semplificazione metodologica si realizza in chiave suprematista – purtroppo occorre ricorrere a tale terminologia! – cancellando con un colpo di spugna lo sforzo fatto in questi anni per elaborare proposte didattiche capaci di leggere le trasformazioni (non i singoli eventi!) all’interno di un complesso divenire che, nel passato e verso il presente, si articola su scale e dimensioni diverse, attraversando oceani e continenti con declinazioni e fenomeni differenti.

E poi altre perle.

Centralità della pratica del riassunto, nuovo spazio alle poesie a memoria, valore delle regole grammaticali ed importanza della sintassi: per la didattica dell’Italiano ci troviamo davanti a indicazioni o ad obblighi? Quelli che sono stati pubblicati sono dei veri e propri programmi di lavoro, con un ritorno spudorato alla più tradizionale delle procedure didattiche. L’operazione è anzitutto grave da un punto di vista scientifico: si prendono tecniche e le si presentano isolatamente fuori dai contesti epistemologici disciplinari e dalle ricadute sui processi di apprendimento degli alunni.

Riassumere, memorizzare, applicare regole, utilizzare la sintassi della frase semplice e complessa sono aspetti fondamentali (nessuno qui ha intenzione di sostenere il contrario), ma se inquadrati correttamente nella struttura semantica disciplinare; se collegati ai nuclei fondanti delle stesse discipline; se forieri di sviluppo di competenze di analisi testuale, di generalizzazioni concettuali, di applicazioni ragionate. Altrimenti è come dire ad un aspirante giardiniere di piantare una rosa, senza spiegargli prima che tipo di terreno serve, quanto in profondità piazzare le radici, quanta acqua e concime sono necessari per farla fiorire.

Altrettanto spinoso il tema di alcune discipline che non lo sono in quanto tali, perché nello specifico scolastico assolvono al compito della funzionalità e della veicolazione dello scibile in generale. La L2 (Inglese), oggi come oggi, nella Scuola italiana assume il rango di L3 se in aula ci sono alunni provenienti da Cina, Perù, Pakistan, Marocco, Senegal, divenendo lingua ponte attraverso cui, in una forma di Clil non sempre strutturato, si insegna Matematica, Tecnologia, Scienze, Storia, e chi più ne ha più ne metta. Giunti al 2025 sarà il caso, oppure no, di una riflessione sul multiculturalismo che caratterizza le nostre classi in modo stabile, ad ogni latitudine del nostro Paese? O ci interessa solo mettere nero su bianco l’ambizione di un traguardo linguistico ancorato ai livelli delle certificazioni internazionali, senza prendere in considerazione i divari territoriali esistenti?

Mentre nelle Indicazioni del 2012 l’apprendimento della lingua Inglese era normata come lingua di transizione, e posta su di un livello di mediazione, nelle attuali Indicazioni si gioca su un livello di acquisizione già più alto sin dalla Primaria, per lo meno nelle classi con 5 ore di lingua, che nella Secondaria non esistono.

In astratto, potrebbe andare benissimo proiettarsi verso livelli più elevati di padronanza della lingua inglese, ma la realtà è ben diversa. Spesso nelle nostre classi quella che dovrebbe essere L2 è L3, non solo per il discorso sul multiculturalismo di poco prima, ma perché, soprattutto al Sud, la lingua madre è il dialetto, e L2 è l’Italiano!

Poi nei “suggerimenti metodologici didattici per i docenti” prende forma l’uovo di Colombo quando si fa riferimento  al fatto che attualmente grazie alla varie piattaforme è possibile fruire ed esporsi alla lingua diversa da L1 con più facilità e varietà d’offerta, come se fino ad oggi i docenti di lingua non avessero già sperimentato tali risorse in aula!

Non si considera peraltro che non tutti i nostri alunni accedono a tali piattaforme (in molti contesti non scaricano neanche il libro digitale!), e si è forse rimosso il problema del digital divide? Magari causato non da povertà in sé, quanto piuttosto da una scelta consapevole dell’alunno (o della famiglia) di non sprecare i giga personali per la scuola, quando poi servono per altro.

Informatica: specchietto per le allodole o proponimento concreto per la Scuola dei prossimi 5 – 8 anni? L’integrazione dell’Informatica all’interno dell’insegnamento della Matematica ha suscitato forti perplessità a vari livelli, come dichiarato nell’incontro pubblico promosso dal Dipartimento di Matematica dell’Università di Bologna (25 marzo 2025). Gli obiettivi proposti nelle Nuove Indicazioni sembrano derivare da una proposta pensata per una disciplina autonoma, più che per un’appendice disciplinare – sostengono gli esperti – appaiono eccessivi, tecnici e poco adatti al contesto della scuola Primaria e Secondaria di Primo Grado. La frammentazione tra Matematica e Tecnologia, l’assenza di un piano organico, la scarsa formazione specifica dei docenti e il monte ore invariato hanno fatto sollevare dubbi sulla sostenibilità didattica di questa parte del documento. È stato auspicato – nel corso del convegno bolognese – un ridimensionamento degli obiettivi, un maggiore coinvolgimento delle scuole e una riflessione sull’opportunità di trattare l’Informatica come disciplina autonoma.

Vale la pena soffocare il dibattito e sacrificare questioni profonde come queste, lanciandosi a capofitto in un processo che inevitabilmente, dal prossimo anno scolastico, costringerà i Comprensivi a sradicare l’esistente in assenza di riferimenti epistemologici chiari?

Stesso dubbio accompagna l’inserimento del Latino all’interno del LEL, acronimo che racchiude l’educazione linguistica in senso lato. Latino, radice comune delle lingue romanze, il cui insegnamento non si capisce ancora se sia da intendersi come opzionale oppure obbligatorio. Così se con l’Informatica si lancia un’esca per il futuro, con il Latino si pesca a mani basse in un passato nostalgico, quando si diceva agli allievi che senza di esso non si poteva imparare a parlare e scrivere correttamente. Ma siamo proprio certi che oggi nel 2025 il Latino possa salvare le nostre classi dai tragici risultati delle Prove Nazionali Invalsi? Servono declinazioni a memoria e qualche paradigma verbale (non si va molto oltre nelle Indicazioni, e viene da dire per fortuna!) per avere chiare le funzioni sintattiche e la struttura frasale ipotattica o paratattica? Serve forse il Latino per comprendere un testo quando la povertà educativa che trascende la società odierna spinge a limitare sempre di più il lessico d’uso comune? Colpa del web e dei social network oppure no[1], questi interrogativi meriterebbero riflessioni ben più profonde rispetto a quelle condotte fino ad ora.

A cura di:

Arianna Genovese, Rosamaria Minerva,
Cristina Barbara,  Maria Concetta Musio,
Caterina Scarascia, Alessandra Toma

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